Un Bombarolo

There is nothing, nowhere, neither on earth nor in heavens, that can make the true untrue or the untrue true. (Bartolomeo Vanzetti)

Archivi Mensili: dicembre 2012

Problemi dell’Accademia 1: la Gerarchia.

Poiché vivo e lavoro nel mondo di università&ricerca da un sacco di tempo, in un modo o nell’altro, mi viene naturale desiderare di veder cambiate alcune cose che, secondo me, rendono inefficiente il mondo accademico italiano. Ho messo un numero nel titolo del post, l’idea è che questo sia il primo di una serie.

Parecchio tempo fa leggevo un articolo sulla necessità, per le aziende, di avere una politica chiara e definita per la sostituzione dei “capi”. L’articolo faceva riferimento, in particolare, alle grandi aziende quotate in borsa, per cui un cambio al vertice può indurre fiducia o sfiducia negli investitori e la mancata sostituzione di un leader è sempre deleteria. Sempre nell’articolo si cita una lite familiare tra due fratelli, per la successione al vertice di una grossa realtà industriale indiana, il caso di Steve Ballmer alla Microsoft e l’attacco che la Deutche Bank ha subito per non avere un successore designato a Josef Ackermann, l’attuale amministratore delegato.

Chiaramente, nel mondo della ricerca, quando un capo se ne va, le azioni non scendono. Ciononostante, il problema della gerarchia e della successione nei ruoli di coordinamento è secondo me molto importante. Un gruppo di ricerca ha tanta più forza quanto più riesce ad assumersi delle responsabilità e a portare avanti dei lavori nei confronti della comunità scientifica (credo si applichi anche ad ambiti non prettamente scientifici, ma la mia esperienza è legata alla fisica delle particelle, quindi faccio riferimento in particolare a quella). Per avere questa forza, quindi, un gruppo ha bisogno di essere composto da un numero “giusto” di persone e di essere regolato nel suo interno da regole gerarchiche definite. Questo secondo punto, su cui molti colleghi non saranno sicuramente d’accordo, è secondo me essenziale, sia per evitare di lavorare senza costrutto, come quando ciascuno fa quello che gli viene in mente, senza coordinamento, sia per consentire di avere il numero “giusto” di persone a cui facevo riferimento prima.

Poniamo il caso di un gruppo di scienziati, guidati da un professore ordinario sulla settantina, in procinto di andare in pensione. All’interno del gruppo, tipicamente, si forma una sorta di fedeltà dei ricercatori nei confronti del capo, che si è occupato negli anni di procurare assegni di ricerca e posizioni post-doc, procurare contatti con università e laboratori stranieri, mettere i giovani del suo gruppo in posizioni di alta visibilità scientifica. Tutto questo è, tutto sommato, sano e aiuta a far funzionare bene il sistema. Se il capo ha scelto bene i suoi collaboratori, ha un gruppo che funziona, che lavora bene e che ne ha un ritorno, quantomeno a livello di produzione scientifica. Ammettiamo ora che il capo vada in pensione e che lasci le redini del gruppo. Possono verificarsi due condizioni estreme.

Un capo illuminato, alcuni anni prima di ritirarsi, decide a chi delegare le sue responsabilità, poco alla volta, e, di fatto, designa un suo successore. Per il gruppo, se il capo ha avuto l’accortezza di crescere qualcuno che avesse capacità di leadership, oltre che capacità scientifiche, il cambiamento è molto soffice, al limite può essere inavvertibile.

Un capo che, invece, teme per la sua leadership, sarà portato a crescere persone poco inclini a portargliela via e cercherà di mantenere su di sé tutte le responsabilità di comando. Al limite, cercherà di accentrarle sempre di più via via che si avvicina alla pensione, per cercare di diventare “insostituibile” anche dopo aver perso il suo ruolo istituzionale.

Questo secondo approccio ha un difetto essenziale. Anche il più illuminato e capace dei capi, prima o poi deve mollare. Può essere per dei nipotini, per un acciacco o per una chiamata all’aldilà, ma prima o poi capita a tutti. Quando un capo del secondo tipo lascia per davvero, il suo gruppo è formato da persone che non sono pronte ad affrontare le responsabilità di comando e che non hanno una gerarchia predefinita tra loro. Il gruppo si sfalda e le probabilità di essere incisivi nel proprio ambito di ricerca diminuiscono. Io credo che, per spingere la gente a comportarsi da capo illuminato, siano necessari svariati cambiamenti. Intanto, sarebbe opportuno che si evitassero assunzioni di massa e periodi di blocco. Questo darebbe più omogeneità alla popolazione dei ricercatori e dei docenti, senza andare incontro a momenti in cui gli ordinari spariscono tutti insieme. Poi sarebbe opportuno che a fare carriera fossero in pochi, e che quei pochi arrivassero al vertice abbastanza giovani. Infine, sarebbe utile rimuovere da ogni incarico istituzionale (ruoli di coordinamento, posizioni da direttore, responsabilità su fondi di ricerca), almeno ufficialmente, tutti quelli che sono a meno di dieci anni dalla pensione. In questo modo, sarebbero forzati, in quei dieci anni, a trasferire le responsabilità a qualcun altro. Questi, comunque, sono solo piccoli suggerimenti.

L’università e il mondo della ricerca, a differenza dei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, non sono più in rapida espansione, ma devono mirare ad una stabilità sul medio e lungo periodo: per questo non tutti possono diventare leader di un gruppo, durante la loro carriera, e le responsabilità di chi lo diventa sono ancora più grandi.

Sallusti e le catene di responsabilità.

La notizia del giorno è che hanno arrestato Sallusti. Sono settimane che si sente parlare di questa eventualità, fino ad una proposta di legge “d’urgenza” per cambiare l’attuale legge, che, di fatto, identifica nel direttore di un giornale il responsabile ultimo di quello che un giornale pubblica. Ora, quello che è successo è abbastanza chiaro. Su Libero, quotidiano allora diretto da Alessandro Sallusti, appare un articolo a firma Dreyfus in cui si accusa un giudice di aver costretto una ragazzina ad abortire. Continua col caldeggiare la pena di morte per giudice, genitori e medico della ragazzina e fa un discorso sulla morale, sull’etica, sull’aborto, in toni molto enfatici e piuttosto pesanti. Il giudice ha denunciato il giornale e ha condannato il direttore, in quanto responsabile di quello che viene pubblicato sul suo giornale, soprattutto se si tratta di un articolo anonimo.

Ora, non ho nessun titolo per entrare nel merito dell’articolo né della sentenza, però mi pare interessante come gli altri girnalisti e anche molte persone al di fuori del mondo del giornalismo hanno reagito a questa vicenda. L’idea che Sallusti potesse andare in carcere per l’articolo scritto da qualcun altro ha fatto arricciare il naso a molti, soprattutto tra i suoi colleghi. È effettivamente seccante pensare che, a causa di un proprio subordinato, un dirigente possa finire in carcere, ma questo fa parte del concetto di responsabilità, a mio avviso. Sallusti non viene condannato perché non ha voluto rivelare l’identità di Dreyfus (che poi si è visto essere un parlamentare), ma perché aveva la responsabilità di vigilare sui contenuti pubblicati sul giornale che dirigeva.

Il discorso è estremamente semplificato, ma questo cercare di confondere le catene di responsabilità, in tutti i campi, lo trovo davvero pericoloso. Se per il caso giornalistico ci possono essere dei margini di miglioramento della legislazione, anche se non saprei cosa suggerire, in molti altri ambiti trovo questo rifiuto delle responsabilità un po’ preoccupante. Poniamo il caso di un ponte, che viene costruito male e che poi crolla. nel nostro sistema, la ricostruzione della catena di responsabilità è estremamente ardua. Lo Stato dirà che il ponte era fuori norma, il costruttore dirà che il progetto era sbagliato, il progettista che il costruttore ha lavorato male o che i materiali erano inadeguati, il fornitore dei materiali che le specifiche erano sbagliate e così via. Alla fine, vista l’impossibilità di attribuire la responsabilità a qualcuno, non la si attribuisce a nessuno.

Spero in un mondo in cui la gente si prende delle responsabilità con più entusiasmo di quello che, oggi, dimostriamo nello scaricarle.